Rodolfo Di Maggio
5/5
Il locale è meraviglioso nella sua austera fantasmagoricità, all’ingresso si viene accolti da dei Maître de Chambre in smoking e infradito. È obbligatorio togliersi le scarpe e lasciarle all’ingresso, le ritroverete poi all’uscita laccate di rosso come segno della vostra visita al simulacro sacrale sacramentale.
C’è stata in passato per qualche tempo l’usanza di togliersi, oltre alle scarpe, anche i pedalini, ma gli effluvi aromatici vaganti nell’aria facevano pensare agli avventori che la città di Gorgonzola fosse più vicina in linea d’aria di quanto in effetti chilometricamente fosse, e l’abitudine venne dismessa.
L’arredo è spartano, ruvide panche di legno e tavolacci. Non si usano tovaglie e si mangia con le mani, per vivere in modo totalizzante l’esperienza gustativa.
Sono scrupolosi, prima di sedersi ci si deve lavare le mani con del ruvido sapone di Marsiglia e asciugarle poi su morbidi teli delle Fiandre profumati con Acqua di Colonia.
Non vi verrà mai chiesto cosa desiderate degustare: il vanto del locale è quello di far sentire il cliente a casa propria, quindi alla fine dell’impareggiabile esperienza avrete come la sensazione di aver cenato da vostra suocera.
Una signora, robusta e gioviale, arriva con un marmittone pieno di zuppa contadina ai sette sapori e ci mette nelle scodelle di coccio l’improbabile brodaglia.
Il pane è duro. C’è, è vero, anche del pane fresco ma “bisogna prima far fuori il pane duro, l’abbiamo pagato anche quello, vorrete mica che lo buttiamo via?”.
La, carne, nerboruta e legnosa tanto che sembra di masticare del cuoio coriaceo, è accompagnata da una sapida salsa casalinga che chiamano “Chissa”. Se chiedete le origini e il significato dello strano appellativo vi viene risposto: “Ai ati ch’le savoir acse ch’le denter”, che tradotto dal bergamasco stretto significa: “La chiamiamo ‘Chissà’ perché chissà chi lo sa cosa c’è dentro?”.
Da provare gli Sgarramozzi, chicchi d’uva passa farciti con patate, pomodoro, due uova, kiwi, pan di Spagna e tre etti di Puzzone di Moena.
Saziano poco ma hanno il vantaggio che sono quasi impossibili da digerire.
Non si può iniziare il pasto se prima non si dicono le orazioni, che sono abbastanza lunghe: solo dopo tre Rosari, un Te Deum, quattro Tantum Ergo, due Nosci Te Ipsum, e cinque Nemo propheta in patria, si potrà toccare il cibo. Il vantaggio di questa salutare disciplina spirituale è che, passate le due ore abbondanti richieste dalle preci, la fame vi è arrivata fin sopra i capelli e a quel punto mangereste di tutto.
Si può anche evitare di dire le orazioni rituali ma, in quel caso, per punizione le vostre scarpe, che avevate lasciato all'ingresso, verranno gettate nel camino e dovrete tornare a casa scalzi.
Per questo motivo si sconsiglia vivamente di recarvi nella location nei giorni di pioggia po' in caso di terreno gelato.
Il vino è rustico è forte, forse un po' troppo; sa di aceto, ma quella è la sua peculiarità che lo rende unico.
Non potrete lasciare il locale se prima non vi sarete lavati i denti, e, per essere certi che tutti lo facciano compitamente, si viene scortati, uno alla volta, da sei eunuchi circassi pronti a randellarvi sulla testa se l'operazione non è compiuta in modo scrupoloso.
I prezzi sono buoni e, per chi non ha contanti con se, esiste il comodo studio notarile posto al numero civico contiguo - e sempre aperto - dove potrete firmare l'atto di vendita della vostra casa.
In alternativa potrete optare per pagare quanto loro spetta col vostro lavoro manuale, in quel caso verrete acconpagnati nella vicina stalla per dare inizio al primo dei 4 turni di lavoro di 12 ore finiti i quali avrete saldato il vostro debito.
Il caffè è squisito, ma non lo potrete mai gustare in quanto vi viene servito con l'amnazzacaffè, e quando il vassoio arriva al tavolo il caffè è già deceduto e quindi resta l'amnazzacaffè che, a non berlo c po'non attenzione, è capace di ammazzare qualcos'altro oltre al caffè.
Quindi un locale che merita, portateci la suocera e/o il capufficio e poi correte via adducendo improbabili scuse.